Miope

Pubblicato: 6 febbraio 2013 da Sebina Pulvirenti in Racconti estemporanei
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Per la terza sessione aperta alla Libreria italiana “Le Nuvole”, Cecilia propone di scrivere un racconto sul seguente tema:

“La prima volta che vide l’uomo che passeggiava sulla spiaggia fu di mattina presto, ma la giornata non era proprio la più adatta per passeggiare in riva al mare. Anzi, la cosa migliore sarebbe stata di rimettersi a letto, tirarsi le coperte fin sopra alla testa, chiudere gli occhi e buonanotte ai suonatori. Lo rividi altre volte, sempre vestito di nero, sempre solo, sempre di mattina presto. Come lui, l’uomo si alzava all’alba e cominciava la giornata con una passeggiata solitaria in riva al mare. Si incrociavano, si guardavano, ma non si salutavano. Quella mattina si era alzato che ancora il sole non accennava nemmeno a dissipare il buio della notte. Passeggiava infreddolito, assorto nei suoi pensieri finché la luce dell’alba venne a indicargli la via del ritorno. Fu allora che vide l’uomo vestito di nero riverso sulla sabbia, quasi un sacco abbandonato sul bagnasciuga dalle onde. ”

In realtá per un momento pensò che si trattasse solo dei suoi vestiti, che gli fosse venuta voglia di fare una bella nuotata tonificante e si fosse liberato del suo guscio per sentirsi più libero. Poi si rese conto che l’ipotesi era stata sintroppo ottimista. Tuttavia non ebbe paura, sentì solo un profondo rammarico, come se avesse perso qualcosa di prezioso, e una volta per tutte.

Si avvicinó lentamente e lo osservò da vicino. Un viso anonimo, pallidissimo e liscio come quello di un bambino, una timida barbetta bianca che gli inumidiva il mento aguzzo e gli occhi chiusi placidamente come se stesse dormendo. Gli sfiorò la carotide con due dita, per assicurarsi che fosse effettivamente morto. Bè, non c’erano dubbi. Sospirò profondamente e si guardò intorno. La spiaggia era ancora completamente deserta, eccetto un enorme gabbiano che lo osservava con aria chiaramente riprovevole, dall’alto della pancia di una vecchia barca rovesciata.

– Non l’ho ammazzato io, si giustificò, bofonchiando.

Il gabbiano per tutta risposta volò via lasciandolo solo con il cadavere. Sapeva esattamente cosa avrebbe dovuto fare, era facile: prendere un telefono e chiamare subito la polizia. Ma sfortunatamente era forse l’unico uomo della cittá che non possedeva un cellulare. Era una buona scusa, trovare una cabina telefonica nei dintorni non sarebbe di certo stato facile.

Cosi vinse ogni remora e iniziò a frugargli nelle tasche, in cerca nemmeno lui sapeva di cosa, forse di un documento che gli rivelasse l’identitá di quel disgraziato. Non ne trovò. Ma trovò altre cose. Dispose gli oggetti sulla sabbia, in una fila ordinata, come gli elementi di un rebus che dio solo sa chi avrebbe potuto risolvere: una minuscola chiave lucente, un buffo pupazzo di pezza informe, qualche spicciolo e una lente d’occhiale incrinata, la sinistra per l’esattezza. Che strano, non si ricordava di averlo mai visto con gli occhiali, ma in fondo forse non era poi così bizzarro, visto che gli incontri casuali e silenziosi con quell’uomo erano avvenuti solo su quella spiaggia.

Prese in mano la chiave e la soppesò: era leggerissima, al massimo poteva aprire una cassetta delle lettere. Chissà dove. Chissà di chi. Con riverenza prese il buffo pupazzo di pezza, che non sapeva perché, ma gli ricordava qualcosa, e lo strizzò ben bene perché era inzuppato d’acqua. Fu li che si accorse che dentro c’era qualcosa. Tirò la cerniera sulla schiena del pupazzo e ne tirò fuori una minuscola lente d’ingrandimento e un biglietto sgualcito in cui ormai si leggeva solo una parola, visto che l’acqua del mare aveva già liquefatto tutto il resto.

C’era scritto “Grazie, Clark”.

E guarda caso lui si chiamava proprio così. Clark.

Sbattè le palpebre tre volte. Lo faceva sempre quando era nervoso. Cercò di non dar retta a quel brivido sulla schiena. Poteva essere una coincidenza, anche se qualcosa gli diceva che non lo era. Non c’erano penne nei dintorni, come non c’erano occhiali. A parte i suoi, chiaro, Clark aveva sempre portato gli occhiali, era miope sin da quando era bambino e andava a scuola con ragazzotti di campagna sempre più grossi, più forti e con la vista più aguzza di lui.

Sbatté le palpebre ancora tre volte, a quel pensiero sgradevole, e distolse l’attenzione dalla lente per dedicarsi alla lente d’ingrandimento. Analizzò con cura il biglietto sgualcito, anche contro la luce del sole dell’alba, per assicurarsi che non ci fosse scritto nient’altro. E poi analizzò tutto il resto: le monete, la lente, il pupazzo e la chiave. Analizzare ogni cosa era da sempre il suo forte.

Sulla chiave scovò l’indirizzo di quella che doveva essere l’officina di fabbricazione. Si trovava a pochi isolati da lì, così decise di andarci subito. Ma prima si ficcò tutti gli oggetti in tasca e diede l’ultimo sguardo all’uomo vestito di nero. Poveraccio, sembrava che dormisse. Fece un nervoso cenno del capo, a mò di saluto, e gli caddero gli occhiali sulla sabbia.

E fu lì che, con orrore, si accorse che ai suoi propri occhiali mancava una delle lenti. Ed era proprio la sinistra.

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